giovedì, maggio 29, 2008

Povero Che

mi ricordo che sabato sera alla festa di Sere abbiamo parlato di questo incidente e come ora le peggio bestie fasciste o naziste si sentivano al sicuro di fare di tutto - vedi anche quel che e` successo a La Sapienza lunedi`. Pero` temo che nessuno di noi avrebbe pensato lontanamente che le cose fossero andate cosi`.

l ricercato: "Sono di sinistra, basta schifo nel quartiere
Politica e razze non c'entrano. Mi sono fatto giustizia"

"Al Pigneto sono stato io
Non chiamatemi razzista"

di CARLO BONINI


"Al Pigneto sono stato io
Non chiamatemi razzista"" width="230">
L'uomo del raid del Pigneto, "l'italiano sulla cinquantina" cui la polizia cerca da cinque giorni di dare un volto, il più vecchio tra i mazzieri, il "Capo", arriva all'appuntamento ai tavolini di un bar che è notte. Ha i capelli brizzolati, gli occhi lucidi come di chi è in preda a una febbre. Allunga la mano in una stretta decisa che gli fa dondolare il ciondolo d'oro al polso.

"Eccome qua, io sarei il nazista che stanno a cercà da tutti i pizzi. Guarda qua. Guarda quanto sò nazista...". La mano sinistra solleva la manica destra del giubbetto di cotone verde che indossa, scoprendo la pelle. L'avambraccio è un unico, grande tatuaggio di Ernesto Che Guevara.

"Hai capito? Nazista a me? Io sono nato il primo maggio, il giorno della festa dei lavoratori e al nonno di mia moglie, nel ventennio, i fascisti fecero chiudere la panetteria al Pigneto perché non aveva preso la tessera". L'uomo ha 48 anni. Delle figlie ancora piccole. Una storia difficile di galera e di imputazioni per rapina. E, naturalmente, un nome. "Quello lo saprai molto presto. Il giorno che mi presento al magistrato, perché quel giorno il mio nome non sarà più un segreto. Mi presento, parola mia. La faccio finita cò 'sta storia. Ma ci voglio andare con le gambe mie a presentarmi. Nun me vojo fà beve (arrestare ndr.) a casa. Perciò, se proprio serve un nome a casaccio, scrivi Ernesto... ".

Indica la foto sulla prima pagina dell'edizione di Repubblica del 27 maggio. Quella scattata durante il raid con il telefono cellulare da uno dei testimoni dell'aggressione. "Ecco. Io sono questo qua. Questo cerchiato con il marsupio e la maglietta rossa, che si vede di spalle. La maglietta è una Lacoste. Adesso ti racconto davvero come è andata. Ti racconto la verità prima che mi si bevono. Perché la verità, come diceva il Che, è rivoluzionaria. La politica non c'entra un cazzo. Destra e sinistra si devono rassegnare. Devono fare pace con il cervello loro. Non c'entrano un cazzo le razze. Non c'entra - com'è che se dice? - la xenofobia. C'entra il rispetto. Io sono un figlio del Pigneto. Tutti sanno chi sono e perché ho fatto quello che ho fatto. Tutti. E per questo si sono stati tutti zitti con le guardie che mi stanno cercando. Perché mi vogliono bene. Perché mi rispettano. Perché hanno capito. Io ho sbagliato. E non devo e non voglio essere un esempio per nessuno. Ma per una volta in vita mia, ho sbagliato a fin di bene. E allora è giusto che il Pigneto veda scritta la verità. Se lo merita. E quella la posso raccontare solo io".


La "verità" di "Ernesto" ha un incipit. Giovedì 22 maggio. Quarantotto ore prima del raid. "A metà mattina, a una donna di cui non faccio il nome e a cui voglio bene come a me stesso, rubano il portafoglio in via Macerata. Non faceva che piangere. Un amico mio - un immigrato, pensa un po' - mi dice che se lo voglio ritrovare devo andare nel negozio di quell'infame bugiardo dell'indiano. In via Macerata. Perché il ladro sta lì. E' un marocchino, un tunisino, mi dice l'amico mio. Venerdì, verso mezzoggiorno, ci vado. Trovo questa merda di marocchino, o da dove cazzo viene, questo Mustafà, seduto davanti al negozio con una birra in mano. Una faccia brutta, cattiva, con una cicatrice. Mi fa cenno di entrare e nel negozio mi trovo lui, l'indiano bugiardo e un vecchio, un italiano. Il marocchino mi dice: "Tu passare oggi pomeriggio e trovare portafoglio". Io dico va bene e, te lo giuro, non mi incazzo, né strillo. Dico solo: "Dei soldi non me frega niente. Ma dei documenti sì". Ripasso il pomeriggio e quello mi dice: "Scusa. Non fatto in tempo. Torna domani". Io ripasso sabato mattina e quel Mustafà là, ridendo, sempre con quella cazzo di birra in mano, mi fa segno che i documenti l'ha buttati dentro una buca delle lettere. Allora non ci ho visto più. Mi è partita la brocca. Ho cominciato a strillare, dentro e fuori del negozio. In mezzo alla strada. E ho detto: "Se vedemo alle cinque. E se non salta fuori il portafoglio sfascio tutto"".

Alle 17 di sabato, dunque, arriva "Ernesto". Ma non da solo. "Eh no. Fermati. Fermati qui. Io arrivo da solo. Perché io voglio andare a gonfiare il marocchino da solo. Io quando devo fare a cazzotti non mi porto dietro nessuno. Il problema è che quando arrivo all'angolo con via Macerata non ti trovo una quindicina di ragazzi del quartiere? Tutti incazzati e bardati. Te l'ho detto. Mi vogliono bene. Avevano saputo della tarantella ed erano due giorni che sentivano questa storia di questo portafoglio. Evidentemente volevano starci pure loro e si sono presentati. Non l'ho mica chiamati o invitati".

"Ernesto" fa un cenno al cameriere. Chiede un whiskey di malto scozzese. Un "Oban". Strizza l'occhio. "Lo vedi questo? E' cresciuto con me al Pigneto". "Che stavo a dì? Ah sì, i pischelli. Io davvero non riesco a capire come si sono inventati la storia della svastica. Ma quale svastica? Io questi pischelli non li conosco personalmente, ma mi dicono che sono tutto tranne che fascisti. E, comunque svastiche non ce n'erano. Quei pischelli, per quanto ne so, si fanno il culo dalla mattina alla sera. E hanno solo un problema. Si sono rotti il cazzo di vedere la madre, la sorella o la nonna piangere la sera, perché qualche vigliacco gli ha sputato o gli ha fischiato dietro il culo. Te lo ripeto, io non l'ho chiamati. Io ce li ho trovati. E poi, scusa tanto sa, ma hai mai visto tu un raid nazista senza una scritta su un muro? Qualcuno si è chiesto perché, se era un raid, nessuno ha toccato per esempio i sette senegalesi che vendevano i cd taroccati in via Macerata? Lo vuoi sapere perché? Perché i senegalesi non avevano fatto niente. Perché sono amici. Perché portano rispetto e quando stava per cominciare il casino al negozio dell'indiano, gli ho detto di mettersi da una parte".

Forse "Ernesto" vuole solo coprire quei ragazzi. Forse la sua storia comincia a pattinare. "Aspetta. Io ti ripeto che i nomi di quei pischelli non li conosco e, comunque, se anche li conoscessi non li farei mai. Ma la dimostrazione che dico la verità sai qual è? E' che loro erano tutti coperti. Con i caschi, con i cappucci. E io invece ero l'unico a volto scoperto. Perché, come t'ho detto, io se devo andare a fare a cazzotti ci vado a mani nude, da solo e a viso scoperto. Te ne dico un'altra. La dimostrazione che sto dicendo la verità è che quando l'indiano di via Macerata mi vede e se la dà, dopo che gli ho sfasciato le vetrine, i pischelli si mettono a correre verso via Ascoli Piceno. Per me è finita lì. E non capisco quelli che vogliono fare. Allora li raggiungo a piedi e quando all'angolo tra via del Pigneto e via Ascoli Piceno vedo che stanno a fà un macello con i bengalesi, che si sono messi a sfasciare le macchine della gente del quartiere, cominciò a gridare. Grido: "A pezzi de merda che state a fa'? Annatevene da lì, a rincojoniti!". Per questo, come ho letto sui giornali, dicono che hanno sentito "il Capo" dare ordini in italiano. Ma quali ordini? Io li stavo a mannà a fanculo perché mi era presa paura. Avevo capito che casino stava montando".

Cosa aveva capito "Ernesto"? L'uomo butta giù il fondo di "Oban" rimasto nel bicchiere. Accende una Marlboro rossa. "Avevo capito che, senza volerlo, avevo slegato la bestia. Avevo capito che il veleno mio era il veleno di tutti. Sai perché penso che i pischelli sono andati dai bengalesi in via Ascoli Piceno? Perché quell'alimentari là, quello dove è andato a chiedere scusa Alemanno, due anni fa l'avevano chiuso per spaccio. Perché sotto il sacco dei ceci che dice di vendere, il bengalese ci teneva la droga. So che è andato assolto perché ha detto che la roba la nascondeva un marocchino. Sta di fatto che lì davanti è sempre un circo. Stanno sempre aperti. Anche alle cinque de mattina. Mi spieghi che cazzo si vendono?".

"Ernesto" chiede un altro wiskey. "La storia potrebbe finire qua. Ma non finisce qua". L'uomo, ora, ha voglia di raccontare chi è e come è cresciuto. "Perché tutto si deve sapere. Tutto. Perché poi, quando ti si bevono, i giornali scrivono un mucchio di cazzate". E' il quarto di cinque figli, "Ernesto". Suo padre è un carabiniere. Lo perde a 8 anni e finisce in collegio, perché a casa, al Pigneto, non si riesce a mettere insieme il pranzo con la cena. Quando esce dall'istituto, comincia a rubare. "Per fame. Ho sempre rubato solo per fame. E mai al Pigneto". A 24 anni perde anche la madre. Comincia a entrare e uscire di galera. Regina Coeli, Sollicciano, "dove a Pacciani, j'ho fatto 'na faccia tanto. Sto schifoso... ". "Sempre accusato di reati contro lo Stato... ". Contro lo Stato? "Sì, rapine in banca. Perché, le banche non sono dello Stato?". Ride, per la prima volta. Poi si fa di nuovo cupo.

"Il Pigneto era bellissimo. Da ragazzino giocavo a ruzzichella dove adesso ci stà quello schifo di isola pedonale. Dove adesso vomitano e pisciano fino alle cinque de mattina, ci stava il cocomeraro e quello che vendeva le cozze col limone. Posso sopportare che mentre vado al mercato a comprare il pesce per mia figlia che è una ragazzina, lei deve vedere uno che se tira fuori l'uccello e sui banchi del mercato ci piscia? Eh? Lo posso sopportare?". Il colore della pelle, dice, non c'entra. "Io ho litigato con tutti quelli che non portano rispetto alla gente del Pigneto. Bianchi e neri. Io ho fatto casino qualche settimana fa al pub di via Fanfulla, perché quattro stronzetti italiani non mi facevano rientrare a casa con le bambine e quando ho chiesto di spostare una macchina in doppia fila, mi hanno imbruttito dicendo: "Perché, se no che succede?". "Succede che te gonfio", ho detto. E si sono spostati. Ho litigato con degli algerini sotto casa, che mi stavano fregando il motorino. Ne ho appicciati al muro un paio e da allora sai come mi chiamano? "Grande mujaheddin. Grande talibano". Beh, l'altra sera m'hanno riportato le chiavi della macchina che mi ero dimenticato sul cofano. Hai capito, sì? Io non ce l'ho con nessuno. Io voglio bene ai neri e ai bianchi che rispettano gli altri. Che rispettano il Pigneto, che insieme alla mia famiglia è l'unica cosa che ho. Io sono cresciuto al bar Necci, hai presente? Sai, no? Quello del film di Pasolini "Accattone". Vai a chiedere di me lì. Vedi che ti dicono. Vai a chiede di me allo stagnaro di via Ascoli, o al bar di fronte. Vedi che dicono. Io ci sono poche persone che non rispetto. I bugiardi, i laidi, gli ipocriti, le pecore. E ti racconto ancora una cosa che mi devi promettere di scrivere".

"Ernesto" tira fuori l'ultima sigaretta del pacchetto di Marlboro, che poi accartoccia come carta velina. "Pifano. Daniele Pifano, hai presente? Collettivo di via dei Volsci. Autonomia, anni '70 e compagnia cantante. Beh, stai a sentire. Viene a vivere al Pigneto e due anni fa becca un fascistello che gli rompe il cazzo. Ti dico: questo qua lo umilia e gli distrugge la bici davanti a tutti. Io mi metto in mezzo e da allora, quando vedono Pifano, si scansano. E lui che fa? Sabato, dieci minuti dopo il casino, si mette con i centri sociali nell'isola pedonale a strillare che sono arrivati i nazisti al Pigneto. Ma come si fa? Ma che uomo sei? Ma che dignità c'hai a giocare sulla pelle del Pigneto e del sottoscritto? L'altro giorno ho provato a chiamare anche Luxuria, quella di Rifondazione. Gli ho detto: "Dovemo parlà". E lui: "Sì ma al telefono perché sono a Cosenza per una riunione". Allora io dico. Tu starai pure a Cosenza, ma al Pigneto, che è dove vivi pure tu, chi ci pensa?".

Chi ci pensa? "Ernesto" ride. "A pagare i wiskey ci pensi tu, perché io stò in bianco e devo pure pensare a trovare un avvocato bravo. Poi, quando sarà finita tutta questa storia, offrirò io. Ora vado. Mi raccomando. La verità. Io non sono un esempio per nessuno. Ma stavolta, davanti alle mie figlie, voglio che sia diverso. Non come le altre volte che m'hanno visto andare in Centrale o carcerato. Stavolta l'ho fatto per loro. E per il Pigneto. In fondo, non ho ammazzato nessuno. E tutto 'sto casino, non l'ho armato io"

giovedì, maggio 22, 2008

Auguri clessi!


TANTI AUGURIII!!!



Uscirai con me da questa stanza perchè il tempo non ci frega mai e gli diremo forte alla speranza che non serve, che può anche andarsene, sai, e la faremo vedere a chi sta in cielo chi siamo noi



R.Vecchioni













lunedì, maggio 05, 2008

Universita` formato famiglia!


Università formato famiglia

In facoltà mogli, figli e nipoti di 24 rettori Il presidente Crui: i cognomi non contano

«C'era una volta una famiglia molto in voga », canticchia Gappa, al secolo Gaspare Palmieri, psichiatra e cantautore modenese. «La famiglia del rettore», così si intitola la filastrocca, è composta da una moglie preside, un fratello professore ad Avellino, ed una nonna esperta di geriatria, più svariati parenti e affini, tutti rigorosamente in «toga». La canzoncina satirica apparsa per la prima volta sul web, rapidamente ha contagiato le aule dell'ateneo di Modena, dove i due rampolli del rettore Giancarlo Pellacani sono diventati ordinari a tempo di record.


In Italia sono 24 i «magnifici» con «famiglia». Ci sono anche mogli impalmate prima di indossare l'ermellino, fratelli e cugini colleghi di facoltà. Ma in 19 casi parliamo di figli, sangue dello stesso sangue, per i quali più di un rettore si è messo nei guai.


Ne sa qualcosa il potente numero uno dell'università di Firenze, Augusto Marinelli, per tre anni nel mirino della magistratura a causa dell'assunzione di suo figlio Nicola. Nel 2002 il giovanotto è stato promosso ricercatore di Economia Agraria grazie ad un concorso bandito dalla facoltà di Medicina. Da Firenze l'inchiesta è passata a Trieste, e anche se il pm ha chiesto l'archiviazione, non ha potuto fare a meno di sottolineare le «anomalie» del sistema.


Sono invece alle prime battute le indagini sulla Sapienza. E anche in questo caso lambiscono il rettore, Ruggero Guarini, per l'appalto vinto dal professore di Progettazione che ha promosso ricercatrice sua figlia, Maria Rosaria. La secondogenita, Paola, insegna invece architettura degli interni, e tutte e due erano state dipendenti amministrative prima di passare dall'altro lato del corridoio.


Il presidente della Crui, Guido Trombetti, invita alla cautela. Anche lui ha una figliola che lavora nel suo stesso ateneo, la Federico II: «Tuttavia, finché si rispetta la legge non vedo quale sia il problema. Calare dall'alto delle limitazioni non serve. L'importante è che prevalgano sempre capacità e merito a prescindere dai cognomi ».

Ma sempre più spesso la gente, dentro e fuori l'università, si indigna. A Salerno alcuni giornali locali hanno contestato la nomina a ricercatore del figlio del rettore Raimondo Pasquino. Era l'unico candidato al concorso, e così ha vinto nonostante il curriculum ancora acerbo. A Bologna, invece, due parlamentari del centrodestra hanno convocato una conferenza stampa per discutere delle parentele togate di Pier Ugo Calzolari, impegnato fino a poco prima nella stesura di un codice antinepotismo. Il magnifico ha reagito querelando: «Giacomo (il figlio docente ad Economia ndr) è stato danneggiato dalla nostra parentela ».
Giovanni Pellacani, uno dei rampolli modenesi presi in giro da Gappa, ha vinto il concorso da ordinario a 36 anni. L'età media per chi ricopre certi incarichi sfiora i 60. Meglio di lui ha fatto Giovanni Perlingieri, promosso poco più che trentenne per la gioia del padre Pietro, ex rettore dell'Università di Benevento.

Il numero uno di Macerata, Roberto Sani non ha discendenti all'università ma una moglie bibliotecaria. Il che, nel generale andazzo, è nella norma. Ben più eclatante è l'exploit della sua assistente, Anna Ascenzi, che in quattro mesi ha superato due concorsi, passando da ricercatrice ad ordinaria. Qualche giorno fa, il Secolo XIX ha rivelato le somiglianze (parti dell'indice e intere frasi) tra uno dei saggi della pedagoga e la tesi di un sacerdote laureatosi vent'anni fa alla Cattolica di Milano. All' epoca il correlatore era, guarda caso, lo stesso Sani. «Così fan tutti», verrebbe da dire. Ma c'è anche chi la pensa diversamente: «Stiamo per approvare un codice etico che impedisce a docenti imparentati di lavorare nello stesso settore», afferma Fulvio Esposito, a capo dell'università di Camerino, famoso per aver annunciato che si sarebbe dimesso se la figlia si fosse iscritta nel suo ateneo: «Mettere dei paletti è importante — spiega — ma può non bastare: c'è sempre qualcuno che si diverte a fare lo slalom».

Antonino Liberatore, a capo del sindacato dei docenti Uspur, ricorda ancora i tempi in cui «i figli venivano messi alla prova dai propri padri». Per il professore fiorentino «un ragazzo che riesce a imporsi senza raccomandazioni è motivo d'orgoglio per i genitori. Eppure le cose vanno esattamente nel senso opposto».
L'autonomia ha consegnato nelle mani dei rettori un potere quasi assoluto. Al punto che alcuni di loro si sono assicurati una specie di clausola per l'eternità. Con l'appoggio del senato accademico hanno annullato i limiti di eleggibilità e ora governano come «highlander» le università italiane. Il decano è il bresciano Augusto Preti, incollato alla poltrona da cinque lustri, 25 anni. Seguono Pasquale Ristretta a Cagliari (17 anni al comando e un figlio nel corpo docente), e altri 10 colleghi con oltre dieci anni di anzianità. Il perugino Francesco Bistoni è ancora a quota otto, ma potrebbe rinnovare nonostante gli esposti anonimi che gli sono piovuti addosso. Adesso la procura indaga sull'ignoto diffamatore, ma anche sull'assunzione alla Sapienza del primogenito.

Per finire, il napoletano Gennaro Ferrara, ex mastelliano arruolato dall'Udc. È lui il vero patriarca dell'università italiana. Al volante della Parthenope da ben 22 anni, può contare tra i suoi professori due generi e una figlia. La giovane seconda moglie, una sua ex allieva, opera nel settore delle consulenze. Dal momento che nella piccola università le «famiglie con la toga» sono almeno 10, a suo tempo anche l'ex ministro Mussi tirò le somme: «Certi consigli di facoltà sembrano Natale in casa Cupiello».

Antonio Castaldo
03 maggio 2008